Tra realtà e fantasia nel dialetto venafrano: “Carmela faceva… Carmela diceva…”

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VENAFRO – Per Carmela, tra il dire e il fare, non c’era mai stato di mezzo il mare, perché il fare, data la sua energia e determinazione, precedeva sempre il dire. Interveniva, nei ricordi di mio padre, senza invadere la conversazione e nemmeno troppo spesso, solo quando il caso lo richiedeva per rafforzare e impreziosire certe condotte di vita portando come esempio quello che Carmela faceva in quella determinata circostanza e poi… diceva.

Ad esempio, quando faceva il pane in casa, ne spediva puntualmente una pagnotta a certi suoi vicini che evidentemente non ne avevano a sufficienza e quando la suocera le chiedeva “di tanto in tanto” per quanto tempo ancora sarebbe durata “quella storia”, lei rispondeva, con tristezza per i vicini, ma anche con comprensione per la suocera che, ahimé! “I’ sazi nn’ crer’ ai riun’ ” (Chi è sazio non si immedesima con chi ha fame). I’ sazi, agli albori del secolo scorso, dove l’aveva collocata mio padre, era chi aveva pressappoco solo il pane. Carmela faceva anche nei rari momenti di tregua, con cinque lucidi ferretti, calzini di un ruvido cotone nero che, all’approssimarsi dell’inverno, regalava a chi sapeva, sempre tra i vicini, non aveva quelli di ricambio. Al: – Ma chi t’ l’ fà fà!? – (Ma chi te lo fa fare?!) della suocera, sempre alle sue spalle, ribatteva allegramente: “Addò c’è gust’ n’ c’è prdenza!” (Dove c’è il piacere di fare una cosa, non c’è sacrificio che costi). Una volta mia madre chiese a mio padre se “gli risultava” che Carmela avesse litigato qualche volta con la suocera. – No – le rispose con sicurezza e aggiunse a mo’ di spiegazione – per il semplice fatto che non si può inciampare a ogni “preta” (pietra) che incontri p’ la via… (in cui ti imbatti per la strada). “Ma Carmela la pietra l’aveva proprio in casa!” – le fece notare mia madre – (e credette di averlo messo con le spalle al muro), ma lui serenamente la zittì: – Che vuoi che ti dica? Carmela era fatta così. “Carmela parlava sempre in dialetto?” – gli chiesi una volta da bambina -.

“No, qualche volta si esprimeva anche in italiano e quando avveniva – mi spiegò divertito – si giustificava di aver messo “la lengua alla lscia” (la lingua al bucato). Ricordi papà – incalzavo – qualche frase che diceva in italiano? – “Si – pensò un attimo – quando, senza aver letto Mazzini, e con solennità annunciava: “Voce di popolo, voce di Dio”! – Forse – pensai allora – perché c’era di mezzo Dio. Mi era simpatica quando mi facevo ripetere come catalogava due persone che andavano d’accordissimo nel criticare gli altri. “Enn’ fatt’tazza e cucchiara” (La tazza è sempre abbinata a un cucchiaio); oppure: “Enn’ fatt’ Marc e Matalena” (Forse una coppia di pettegoloni di un tempo ancora più remoto). E di qualcuno invece che arrivato all’improvviso e vuol comandare lui sentenziava che era “arrvat frccut’ frccut!” (fresco e presuntuoso). Azzardava anche previsioni metereologiche con: “E’ grugnat’ Sammucr’”(Equivaleva a pioggia sicura quando nuvole coprivano la cima di questo monte). Un po’ fatalista quando affermava che l’acqua va “Addò sta la pnnenza” (La ricchezza scivola sempre verso chi naviga già nel benessere), mente “i cuan’ corr’ addò sta l’stracciat” (Il cane insegue chi è già misero). E anche un po’ filosofa quando stabiliva che la vita “è naffacciata r’fnestra” (alludendo alla brevità della vita). E ancora quando voleva dire che la buona e la cattiva sorte non risparmiano nessuno perché: “Stemm’ tutt’ ngoppa alla stessa barca”. Non aveva peli sulla lingua se qualcuno si presentava a casa di altri a mani vuote: “I salut’ senza cuanistr’ (cesto) fa finta ca ni si vist!”. (Ignora una visita senza un piccolo omaggio). Se proprio voleva dare un consiglio ammoniva: “Mo t’mett’i p’la via!” (Ora ti dico io come ti devi comportare). E battagliera quando contestava il detto: “Attacca i ciucc’ addò ric’i puatron!” (Ubbidisci senza fiatare a un tuo superiore) e completava che il suo asino avrebbe deciso “lei” dove legarlo! Il più famoso dei detti venafrani: “L’vin’buon’ z’ venn’ senza frasca!” (La reputazione di una persona o di un prodotto non hanno bisogno di pubblicità) era come se lo avesse coniato lei stessa. Aveva una vera idiosincrasia per gli sfaccendati: “Addiun’ e sott’ai cieuz!” (Magari digiuni, ma seduti sotto un albero, in ozio), non so perché proprio il gelso! Una miscela di orzo e cereali, abbrustoliti rudimentalmente in casa, come si usava allora, chiamata enfaticamente caffè, serviva, per lei, solo a “iabbà i cuorp” (a prendere in giro il palato). Se qualcuno la ringraziava di qualcosa con l’antica espressione: “Rfresca l’anma ri muort!”, era capace di piangere. Sentii anche sul suo conto che d’estate, quando doveva fare il bagno al piccoletto di turno metteva l’acqua in una bacinella a scaldare sul balcone al sole, e d’inverno, una grossa pentola sul fuoco per risparmiare lo scaldabagno. Per dimagrire stabiliva che, al posto di andare (come si chiama – diceva – quel medico “apposta”?) bastava alzarsi da tavola con un po’ di fame ancora. Sollecitavo la traduzione che arrivava puntuale: “P’ scond’ aizt’ e vattenn!” (Evita cioè una seconda portata). Crescendo cominciai a notare qualche discrepanza. Al tempo di Carmela non c’erano scaldabagni, termosifoni, né circolavano dietologi perché poi di obesi non c’era nemmeno l’ombra. Era esistita veramente? Lo chiesi a mia madre che, con lo spirito caustico che la caratterizzava, mi liquidò “Si, ed era stata la suggeritrice di Frate Indovino”. Quegli aforismi continuarono ad interessarmi. Una sera inoltrata trovai mio padre seduto vicino al camino acceso e con la luce spenta. Quando, sorpresa, glielo feci notare mi confidò che era semplicemente per far riposare un po’ il contatore perché: “Cient nient’ accirn’ pur n ciucc!”. (Tante piccole cose, messe assieme, ammazzano pure un asino). Mia madre intanto, dal corridoio, debitamente illuminato, canticchiò allegramente: “I sold’ r gl’ avaron zi magna i sciampagnon”! (I risparmi di un avaro se li scialacqua una persona godereccia). E ora? Si era convertita pure lei al dialetto? Comunque una luce, anche se intermittente, si era accesa nel mio cervello. Si era immedesimato lui stesso, nella sua eccessiva modestia, in quella donna, per dare più credibilità a quei detti? Consapevole inconsciamente che la saggezza non si insegna era anche fermamente convinto che “qualche” briciola buttata qua e là non avrebbe fatto male a nessuno. Se poi Carmela generosa e schietta, sensibile e gran parlatrice, è esistita davvero, ora, in un cimitero grande o piccolo, mi piace immaginarla “scuotere” il vicino per un po’ di conversazione, innervosita, suppongo poi di non ricevere risposta dall’altra parte e nel dubbio che sempre il vicino non sappia interpretare il dialetto, lo rimprovera in italiano: “Sveglia, morto di sonno! Non ti è bastato aver dormito tanto “prima”?

Alla fine spazientita da quel silenzio prolungato, si rigira dall’altro lato e sussurra a se stessa: “Mah, si ciucc’ n vo’ vev n c’ serv a ciuflà! (Se l’asino non vuol bere non serve a nulla blandirlo). Nella vita c’è sempre un amico pronto a darti un consiglio. Questa volta è toccato a me riceverlo. L’amico sa che soffro di insonnia e da buon samaritano mi ha suggerito: “Conta le pecore e cerca di dormire, invece di scrivere sproloqui”. Non mi è sembrato vero di zittirlo trionfante: “Addò c’è gust’ n’ c’è prdenza”. E questa volta il filtraggio per la traduzione è superfluo.

Rosaria Alterio

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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