VENAFRO – L’ultimo addio a Mario Lepore, amici e giornalisti al funerale

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FUNERALE – Si sono svolti oggi pomeriggio, alle 15, nella Cattedrale di “Santa Maria Assunta” i funerali di Mario Lepore.

Amici, giornalisti e tante altre persone, alcune dei quali volti che spesso facevano capolino tra le pagine su cui scriveva, hanno dato l’ultimo saluto a Mario Lepore, a testimonianza della stima e dell’affetto di cui godeva il giornalista che ha raccontato la società venafrana per oltre un decennio.

A celebrare il funerale è stato Don Salvatore Rinaldi.

“Anche se le notizie gli venivano suggerite, Mario riportava ciò che vedeva con i suoi occhi e alle doti professionali si univano quelle di grande umanità, riusciva a vedere momenti di gloria anche nella notizia più povera” -ha raccontato il parroco durante l’omelia, concludendo- “io amo gli altri nella misura che amo me stesso”.

Al termine del rito funebre, il ricordo, l’ultimo saluto dell’amico, Antonio Sorbo sindaco di Venafro:

“In cima a questa collina in una mattinata grigia e fredda di fine ottobre, dopo una notte passata a contare i ricordi uno ad uno, senza mai riuscire a trovare una fine nella conta. Su questa collina dove il destino ti ha condotto per l’ultimo approdo, che questa sorte ha riservato proprio a te che al grigiore di questo cielo avresti preferito l’aria dolce di Venafro o il sole di Napoli. Adagiato nella bara, in un vestito scuro con la cravatta che da vivo non avresti mai accettato di indossare, ti ho visto senza barba, come l’ultima volta che sono venuto a trovarti la settimana scorsa nell’ospedale che sta in cima a questa collina. Da vivo, da quando ti conosco, prima che ti costringessero nel letto del reparto della disperazione, non ti avevo mai visto senza barba. L’unica immagine di te senza barba che ho in mente è quella della foto tua di bambino, con i pantaloni corti, che è incastonata in una piccola cornice nel mobile antico che sta a casa tua, nella stanza dei quadri. Ti confesso che quando, nel cuore della notte, un messaggio mi ha dato la notizia che temevo di ricevere, sono scoppiato in un pianto triste e irrazionale, come accade quando si deve prendere atto che qualcosa di sé è perso per sempre. Ma dopo, asciugando le lacrime, mi sono accorto che ogni ricordo, a qualunque epoca corrispondesse della nostra lunga amicizia, suscitava in me un sorriso interiore, nell’anima. La prima cosa che mi torna in mente, ora, è il rumore della tua risata fragorosa, esplosiva. Che esplodeva in piena notte, quando con il nostro amico ingegnere – che, se davvero esiste un mondo oltre questo, ritroverai nell’altrove che abbiamo sempre pensato che non ci appartenesse – ci inerpicavamo per le stradine del centro storico di Venafro persi in lunghe chiacchierate su tutto e su niente. O durante una cena, appena finivi di raccontare una delle tue memorabili barzellette. Ho sorriso ripensando a tante cose. Alla scena della mia cresima davanti al vescovo, tu mio padrino, e già per questo surreale, con la tua mano posata sulla mia spalla dal lato sbagliato. O a quella volta che a Roma, attraversando un ponte sul Tevere, desti un urlo liberatorio ed improvviso che fece scappare a gambe levate una signora che passeggiava con il suo cane. O alle tue proverbiali distrazioni, che determinavano situazioni paradossali. O alle partite a tennis nei pomeriggi assolati d’estate. O ai bagni al fiume, alla “solfatara”. O alle partite a carte sotto Natale, alla “stoppa” a casa tua che finiva quando il sole spuntava per dare colore all’alba. Ho ripensato a questo e mi sono venuti in mente i versi di Henry Scott Holland, teologo britannico dell’800 che in una poesia intitolata “La morte non è niente”, immaginava di scrivere, da morto, al suo migliore amico queste parole: “Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.” MI piace immaginare ora, mentre dall’esterno guardo questo involucro di cemento nel quale hai speso le ultime ore della tua vita, che queste parole le abbia scritte tu per me e per i tuoi tanti amici come versi di una delle poesie che amavi comporre come appunti sparsi su fogli volanti che ingombravano la scrivania nella tua camera da letto. In quella stessa camera dove spesso io ti ho confessato le mie paure e ti ho disegnato le mie speranze e dove tu, altrettanto spesso, hai fatto con me. E’ vero, per tanti anni siamo stati inseparabili, ma è onesto oggi ammettere che non è la morte ma è la vita che separa le persone. Oggi leggo i giornali e tutti ricordano in te il giornalista. Nessuno sa che non era questo quello che, quando ti ho conosciuto, volevi fare. Forse sognavi di diventare un uomo d’affari, molto più probabilmente un poeta. Ti convinsi io, trent’anni fa, a battere sui tasti di una macchina per scrivere per raccontare il mondo che ti circondava. Era il periodo in cui io ed altri amici stavamo fondando il “Corriere del Molise”. Quegli anni vissuti lavorando ad un settimanale nuovo e per molti aspetti “rivoluzionario”, furono la tua palestra. E furono gli anni in cui la nostra amicizia costruì le sue fondamenta d’acciaio. Se non ricordo male era il 1992 quando ti accompagnai a Roma a ritirare l’agognato tesserino da giornalista pubblicista. Per festeggiare ci fermammo a mangiare in un ristorante del centro, un piatto di “cacio e pepe” e anche lì risate. Abbiamo vissuto a lungo insieme gli anni della spensieratezza, della leggerezza eppure dell’impegno professionale, politico, civile. Era un periodo in cui eravamo padroni del nostro tempo. “Liberi innanzitutto, e onesti” ci dicevamo sempre. Hai scritto tu tante volte di me, del mio impegno politico e sociale, sempre coerentemente libero, libero di esprimere la tua critica anche nei confronti dell’amico e del compare, del fratello come qualche volta mi hai confidato di considerarmi. Mai era capitato a me di scrivere di te. E mai avrei pensato di farlo. Ma me lo hanno chiesto oggi, in questa fredda giornata di fine ottobre, in cima a questa collina. E quando me lo hanno chiesto mi è venuta la voglia di piangere. Ma so che non ti sarebbe piaciuto vedermi piangere. E allora, caro Mario, mi sforzo di trovare quel sorriso che non ti ho mai fatto e di dirti quello che non ti ho mai detto: ti ho voluto bene, ti voglio bene…

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