COSTUME E SOCIETA’ – Le Prime Comunioni degli anni ’50 nei ricordi della maestra Rosaria Alterio

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COSTUME E SOCIETA’ – I preliminari di tale evento erano semplici e quasi scarni, ma non privi di entusiasmo. In chiesa bastava seguire un breve corso di catechismo: domande e risposte rigorosamente mnemoniche, controllate dal parroco, coadiuvato da qualche ragazza di Azione Cattolica che provvedeva più che altro a mantenere silenzio e compostezza, per quanto era possibile, durante tali lezioni e severe verifiche.

Le fatidiche “prove tecniche di trasmissione”: entrate e uscite, sistemazione dei posti, passaggi di microfoni, offerte per la Messa, flash dei fotografi in chiesa, coreografie varie non erano ancora contemplate dai vari copioni. Veniva tutto da sé.

Un po’ di batticuore ai piccoli protagonisti lo davano le conclusive “prove della confessione” che per me furono un piccolo dramma tutto personale: qualche peccatuccio me lo dovevo pure inventare! E allora mi veniva in soccorso la parolaccia (che oltre a non dirle non le conoscevo nemmeno), ma Mons. Palumbo voleva sapere “quante volte” l’avevo detta e qui dovevo inventarmi un numero: due mi sembravano poche, cinque: troppo. Mi buttavo sul tre e anche per questo supplemento di bugia chiedevo dentro di me, perdono a Gesù. – Cos’altro? – Chiedeva perentorio il confessore. Sollevata, perché questo era vero, dicevo di aver disobbedito ai genitori. – Cosa hai fatto? – Voleva sapere con precisione. – Non ho mangiato la minestra – . Seguiva un lungo rimprovero per ricordarmi dei sacrifici che facevano i genitori per “metterci davanti un piatto”, ed era così indignato che dimenticava di chiedermi “quante volte” l’avevo fatto. Stabilivo tacitamente, quando il prete si faceva promettere di “non farlo più” che ero una gran peccatrice perché sapevo che l’avrei rifatto quel giorno stesso. La prossima volta avrei confessato di non aver fatto i compiti a casa e, alla richiesta sempre puntuale di “quante volte” avrei risposto, con verità e coraggio, – Mai! – Ma, forse… poi… non mi avrebbe dato l’assoluzione! –

Anche in casa i preparativi per tale giorno erano dei più semplici. Non si prenotava il ristorante un anno prima, anzi non ci si andava proprio perché non c’erano né ristoranti, né soldi. Si procedeva con un piccolo ricevimento in casa tra familiari, qualche amico, qualche vicino, la madrina non mancava mai e, in casi eccezionali, si invitava anche la maestra. Il rinfresco consisteva nei tipici biscotti venafrani, “pastette” profumate di vaniglia, torta, accompagnata da vermouth o marsala, qualche pizza di pomodoro, fatta, come le altre cose, nel forno di casa. Chi aveva ammazzato il maiale, non lesinava pane prosciutto e vino.

Tra i regali che si facevano ai festeggiati erano di rigore libriccini di chiesa con la copertina bianca impreziosita dall’immagine della Vergine, in metallo, ma anche d’argento, per le bambine e di Gesù, per i maschietti. C’erano poi coroncine, qualche medaglietta d’oro, un lenzuolo da conservare per il corredo, una camicina da notte, un libro… “Piccole donne” per le bimbe e “Gianburrasca” o “La Capanna dello Zio Tom”, per i maschi.

Una cosa che richiedeva tempi anticipati, un po’ come oggi la prenotazione al ristorante, era la confezione dell’abitino bianco per le bambine, non fosse altro per i ricamini che si facevano su quelle stoffe vaporose. Si monopolizzava allora l’esperta di famiglia, se c’era o si andava dalla sarta per gli accordi.

E a cosa fatta c’erano folate di numerosissimi candidi fiorellini che si rincorrevano nelle balze del vestitino, altri, più piccoli ballavano invece sul corpetto. E su questo non si transigeva, anche nelle famiglie più modeste: per le bambine, ignare di stoffe più o meno costose e ricamini e merletti più o meno elaborati, erano brividi di felicità quando li indossavano.

Il mio fu un look un po’ particolare, ebbi il vestitino arricchito di volant e maniche di merletto (senza ricamini d’obbligo, ma nessuno se ne accorse), scarpette bianche, borsetta, guantini, ma la mamma non “ce la fece” con l’acconciatura (“Valentino” di Pascoli non tralasciò nemmeno questo giorno per far capolino nella mia infanzia…) e siccome la mamma l’ho già detto altre volte, aveva delle risorse formidabili, si fece prestare da una sua giovane amica, sposata da poco, l’acconciatura. Dal diadema di rigidi fiorellini bianchi partiva un velo lunghissimo, che in chiesa, tra la folla delle altre bimbe, me lo dovette ripiegare più volte, quasi impacchettare per permettermi di muovermi, rammaricata di non potermelo stendere dietro come la scia di una cometa (per fortuna pensai sollevata perché non era proprio una sposa!). Dal fotografo però me lo sciorinò davanti ai piedi come una vaporosa nuvola. Da quest’ultimo si andava dopo la cerimonia in chiesa, ma anche dopo nei giorni successivi, costui poi esponeva le foto nella vetrina del suo laboratorio e davanti alle quali si fermavano spesso i passanti per ammirarle.

Se poi devo dirla proprio tutta c’è la faccenda dei “boccoli”. Il pomeriggio del giorno precedente la festa la mamma mi doveva accompagnare dal “barbiere” alla via “Per Dentro” che, in particolari occasioni, si trasformava in acconciatore, per farmi appunto i boccoli. Io me ne dimenticai e, senza avvisare, andai al cinema Aurora, nel palazzetto Liberty, a vedermi un film, in spensierata solitudine, me lo dovetti vedere un paio di volte (allora le proiezioni erano continuate) perché quando finalmente uscii era quasi buio. Mia madre intanto mi aveva cercato per tutto il pomeriggio e quando eccitata e innocente tornai a casa me le suonò di santa ragione. Mi mise poi delle forcine in testa per prepararmi lei stessa dei boccoli per il giorno successivo e queste, oltre a torturarmi per tutta la notte, non furono proprio un successo: il diadema da sposa, a fiorellini di velo e di organza, ovviò un poco alla ricetta casareccia.

Questo dei boccoli però mi guardai bene dallo scrivere sul tema a scuola. Già perché, nella settimana successiva a tale festa, la maestra dava l’immancabile tema: “Il giorno più bello della mia vita”.

Con un gran senso di colpa lo elaborai nella mia mente raccontando… di quando andai con mio padre e mio zio Celestino alla festa a Isernia di San Cosmo e Damiano, su un  carretto tirato da un bel cavallo nero. Ovviamente non lo trasferii sul quaderno perché lo svolgimento che la traccia esigeva era un altro e doveva riguardare anche la vita futura: Il giorno della Prima Comunione.

Non so fino a che punto l’Evento veramente straordinario fosse assimilato dai piccoli. In effetti la festicciola, i regalini… rendevano speciale e forse veramente unico questo giorno.

Poi all’improvviso l’abitino bianco fu sostituito dalle tuniche, tutte uguali che agirono come “A’ Livella” di Totò su questa bella tradizione.

I bimbi devono sentirsi tutti uguali e non tutte le famiglie hanno la possibilità dell’abitino bianco fu la giustificazione di questo cambiamento di rotta. Tutto sommato però la tunica non te la regala nessuno e forse con l’offerta-tariffa ci sarebbe uscito anche il vestitino!

L’ultimo giorno poi del mese di maggio, nella chiesa di San Francesco c’era “l’Offerta” al Cuore Immacolato di Maria. Una bambina che quell’anno aveva fatto la Prima Comunione, nella vaporosa bolla del suo vestitino veniva sollevata su un tavolino, ai piedi dell’Altare e recitava l’”Offerta”, scritta per lei, ma che rappresentava tutti i bambini, ogni anno diversa nella forma, dalla maestra Emma Morganti. L’”Offerta” terminò con la morte della bravissima insegnante.

Alla festa del Corpus Domini infine le bimbe indossavano di nuovo l’abitino della Prima Comunione, i maschietti, il vestitino “nuovo” e, con un giglio bianco in mano, seguivano la Processione per le vie della cittadina, come oggi del resto, ma tutti ora inesorabilmente con l’ascetica, rigida tunichetta.

L’abitino bianco (ma quanto mi piaceva!) veniva riposto nell’armadio e conservato per la sorellina, la cuginetta, la figlia dell’amica della mamma…

 

Rosaria Alterio

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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